Una settimana di ostello, dunque. E in una settimana a Toronto succedono anche troppe cose.
A tal proposito in quei giorni scrivevo:
...come avrai intuito tra un fuso e l'altro non cambia solo l'orario, ma anche la velocità con cui il tempo scorre, la consistenza dell'aria e quel motore interno (con qualunque nome tu voglia chiamarlo) che tiene in piedi le persone.In una settimana il nostro innato istinto di sopravvivenza, pur ritrovandosi in contesti sconosciuti, sviluppa le sue piccole routine quotidiane, che ci semplificano la vita e ci aiutano a tirare avanti, riducendo gli sforzi cognitivi.
Le mie giornate sono lunghe e piene, tutto mi appare sorprendente come allo sguardo di un bambino, viaggio come un treno e talvolta salto un pasto.
E a volte, nonostante tutto, viene su un po' di magone... e allora esco a fare due passi, arrivo a quella che un tempo fu Little Italy e passo una mezz'ora a chiacchierare di Asprilla e di Crespo, di immigrazione e di donne con un colombiano che ormai ha il passaporto canadese e da anni ha imparato anche a fare la pizza.
Ecco, in quella settimana, oltre a spostare le lancette del mio orologio biologico di qualche ora indietro senza alcun problema, mi sono abituato ad avere la mia dimensione sociale sempre a portata di mano, appena fuori (o dentro, o dietro) la porta, e ora tutto ciò mi manca un po', in una città dove le distanze sanno dilatarsi tanto. Ma soprattutto, mi sono assuefatto a potermi specchiare ad libitum in un certo paio di occhi, che ora mi sembrano dannatamente lontani.
Dopo una settimana ho potuto disfare la valigia, finalmente, ma forse mi aspettavo di trovarci dentro qualcosa che in realtà non c'era.
Chissà, forse anche i backpacker di professione, ad un certo punto, si staccano dal branco e si ritirano in luoghi appartati, per andare a morire soli, abbracciati al proprio zaino.
Nessun commento:
Posta un commento