sabato 3 marzo 2012

Un mochafrappespresso da portare via, grazie

Ci sono cose che, comunque vada, un italiano all'estero non riuscirà a fare pienamente proprie, se non rinunciando a una parte di sé: una di queste è la differenza nel consumo di caffè.

Sia chiaro, non intendo attaccare una filippica sulla qualità del chicco o del macinato sulla sponda opposta dell'Atlantico. Sfonderei una porta aperta, tanto più che i marchettari si affannano a spacciare le proprie miscele per italiane, come a dire "avete ragione voi". Inoltre, lungi da me l'esserne un accanito consumatore, per cui mai le mie papille potrebbero atteggiarsi a giudice severo e inflessibile.

E però continuo a non capire perché la gente qui non voglia regalarsi cinque minuti al bancone o al tavolino, sorseggiando al limite anche in fretta la propria brodaglia bollente.
No, qui il caffè è da passeggio o, per meglio dire, da asporto: il termine passeggio suonerebbe impreciso, evocando placidi pomeriggi festivi trascorsi in paesaggi urbani piegati al piacere del vivere, un lungolago di Lecco o un portico di Bologna; anche asporto in realtà non è il massimo, ma suona già più asettico. L'espressione corretta sarebbe "da trangugiare a sorsate ustionandosi la lingua e la trachea mentre si cammina di fretta": forse in tedesco c'è una parola per tutto ciò, ad averlo studiato.

Tralasciando gli immancabili sensi di colpa per qualunque intruglio vagamente somigliante al caffè pagato più di 3 dollari, continuo a muovermi come un pesce fuor d'acqua in questi locali stracolmi di giovani hipster parcheggiati col MacBook, in cui i cassieri mi guardano strano, chiedendosi stupiti perché io continui a fissare ipnotizzato il menù e non favelli (la verità è che i nomi dei prodotti mi fanno sentire un idiota che non capisce la propria lingua, e tanto poi finirà che ne ordinerò uno a caso). E mi trovo ancora più in imbarazzo una volta che il caffè ce l'ho in mano, mentre i clienti abituali mi sfrecciano accanto sfoderando un insospettato numero di braccia e io rimango lì, chiedendomi cosa abbia fatto di male per meritarmi di berlo in un bicchiere di carta, ma soprattutto quale sia il coperchio giusto per il mio bicchiere, e cosa cambierà tra il modello già bucato e quello da aprire di persona.
Va da sé, poi, che cercando di bere e camminare io finisca per sbrodolarmi come un bambino. Forse dovevo scegliere l'altro coperchio.

Fin qui nulla di nuovo. Il fiero popolo canadese, però, non si è piegato del tutto all'ubiquo invasore di verde cromato e per questo non può che suscitare la simpatia di chi viene dal paese dei bar. Merito di Tim Horton, un emblema di questa città e di questa nazione, che, dopo una carriera trascorsa tra le fila dei Maple Leafs con una stecca in mano e inseguendo il puck, ha pensato bene di lanciarsi nell'industria della ristorazione, fondando quella che oggi è la prima catena di caffè di tutto il Canada. Dimenticavo: oltre a tutto questo, ha trovato il tempo di morire a 44 anni. Live fast, die young, be remembered.

Ce lo vedete voi un Beppe Signori paladino del croissant?

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